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I “Canti orfici” costituiscono il capolavoro di Dino Campana, un testo che per l'intensità visionaria, per la lirica suggestione del suo linguaggio, ha segnato in maniera indelebile il mondo della poesia italiana del Novecento. Si tratta di una raccolta in cui la prosa si alterna ai versi, quasi alla maniera di Rimbaud e Baudelaire che erano stati i primi a creare in una stessa opera un rapporto così stretto tra i due codici linguistici. La genesi dei “Canti orfici” è singolare e travagliata quasi quanto la vita stessa del poeta. Dopo aver preso contatti con l’ambiente letterario fiorentino, nel 1913 Campana affida ad Ardengo Soffici il manoscritto dal titolo “Il più lungo giorno” nella speranza di poterne vedere la sua pubblicazione. Tuttavia, l’opera non viene presa in considerazione e il manoscritto viene perduto. Inutili risultano le continue e disperate richieste da parte del poeta di poter ottenere indietro il proprio manoscritto. Campana riscrive tutto a memoria, ma inserendo numerose modifiche e aggiunte, e nel 1914 pubblica a proprie spese i “Canti orfici”. Il titolo allude all’antico orfismo, un movimento mistico-religioso legato al mito di Orfeo. L’intera raccolta si articola intorno a dei temi fondamentali che ritornano quasi ossessivamente nella poesia di Campana: il viaggio (onirico e reale), la sosta, la donna, l’anelito verso una vita nuova. Spesso stigmatizzato e liquidato con superficialità per i suoi continui ricoveri in manicomio, da molti considerato l’unico poeta maledetto italiano, Campana è stato certamente un precursore degli ermetici, che a lui si ispirarono, ma anche dei poeti delle generazioni successive. La poesia, nella foschia spesso cupa di una vita errabonda e tormentata, è stata l’unica luce, l’unico faro, il solo riferimento certo al quale Campana si è affidato per il resto dei suoi giorni.
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